Sono appena trascorsi i due anni orribili della pandemia da covid-19 e ci troviamo catapultati, senza nemmeno il tempo di riemergere ad una pseudo-normalità, in una guerra in Europa dai contorni e dalle implicazioni del tutto imprevedibili, almeno per noi comuni mortali, completamente impotenti rispetto alle decisioni strategiche che riguardano il conflitto.
Rispetto alla continuità di questo passaggio, dalla pandemia alla guerra, si potrebbe obbiettare che mentre la guerra è stata determinata da scelte umane, la pandemia è stata un evento naturale, del tutto imprevedibile e imponderabile. Non è così: come molte zoonosi, anche il covid-19 è stato prodotto da cause eco-antropiche, dall’occupazione da parte dell’uomo, a fini di sfruttamento delle risorse, di spazi (ancora) occupati da animali allo stato selvatico. Lo spillover, cioè il passaggio e l’adattamento del virus dall’animale all’uomo, qualora sia stata questa l’effettiva origine del contagio pandemico, ha quindi cause identificabili con la volontà, sempre più pervasiva, di estrazione di profitti da ciò che resta del mondo naturale. Rimane ovviamente aperta e non verificabile, sempre per noi comuni mortali, l’ipotesi che il virus sia uscito, volutamente o accidentalmente, dal laboratorio internazionale di Wuhan, la città cinese da cui la pandemia si è propagata al resto del mondo.
Ma al di là delle origini della pandemia, è del tutto evidente come su di essa si è innescato un enorme processo di strumentalizzazione e di speculazione su scala globale, giustificato da “superiori” esigenze di tutela della salute pubblica, senza precedenti nella storia, che ha portato all’umanità conseguenze paradossalmente peggiori di quelle che avrebbe prodotto la malattia in sé: In gran parte del mondo, ed in particolare in quello occidentale, è scattato dapprima un dispositivo di comando assoluto alla segregazione, i cui effetti sul piano psichico, sia individuale che collettivo, sono stati devastanti: isolamento totale, in ambiti spesso ristrettissimi, dei nuclei familiari, con il conseguente esplodere di conflitti latenti; eliminazione di ogni forma di socialità che, per i bambini, i ragazzi e i giovani, specialmente quelli in contesti sociali fragili, ha significato danni psicofisici imponderabili; gravissime conseguenze sul piano economico per tutte quelle categorie di persone il cui reddito derivava da impieghi precari, lavori di sussistenza, piccole attività imprenditoriali.
In seguito a questa prima fase, abbiamo assistito al lancio, in pressoché tutti i così detti paesi sviluppati, della campagna vaccinale che, nel nostro paese e in pochi altri, ha assunto i connotati di una vera e propria “guerra civile” hai danni di chi, per le più svariate ragioni, ha rifiutato l’obbligo vaccinale, attuando nei loro confronti forme anche pesanti di discriminazione, ghettizzazione, criminalizzazione.
La segregazione sociale, l’imposizione ricattatoria dei vaccini (se vuoi andare al ristorante devi vaccinarti, se vuoi andare alle poste o in banca devi vaccinarti, se vuoi andare a lavorare devi vaccinarti!), la sindemia (cioè l’insieme di patologie pandemiche non solo sanitarie ma anche sociali, economiche, psicologiche, dei modelli di vita, di fruizione della cultura e delle relazioni umane) hanno determinato, nel loro insieme, uno straordinario e senza precedenti, dispositivo di vera e propria “rieducazione sociale” secondo il peggior significato di questa espressione. Verificare il livello di obbedienza e sottomissione degli individui a disposizioni spesso assurde e illogiche, quando non palesemente discriminatorie, rappresenta un passo rilevante nel processo di assoggettamento della società alle forme di dominio dell’oggi.
La pandemia e le sue conseguenze sono state una grande occasione non solo per fare sperimentazione sociale ad altissimo livello ma anche per realizzare enormi profitti da parte dei colossi farmaceutici, informatici e della logistica. Big Pharma, un settore economico già prospero ed in piena espansione, ha potuto godere degli enormi guadagni legati alla vendita dei vaccini, la cui efficacia (i vaccini non proteggono dal contagio) e sicurezza (oltre alle morti, restano imprecisati, in quantità e natura, gli “effetti indesiderati”) sono peraltro ancora tutte da dimostrare.
Della pandemia ha approfittato, ancor prima, il settore della logistica globale, con aziende come Amazon che hanno visto aumentare vertiginosamente il proprio giro d’affari nell’arco di pochi mesi. Infine, a causa del lockdown, le grandi aziende del web, diventate indispensabili per ogni tipo di comunicazione e, nella totale assenza di piattaforme pubbliche, in Italia persino la Scuola, per la didattica a distanza, è stata gettata tra le braccia di Google. Parliamo di aziende multinazionali di dimensioni colossali i cui profitti vengono oggi tassati in modo insignificante.
La pandemia è stata anche l’occasione per una sorta di “resa dei conti” nello scontro di interessi tra le sempre più potenti aziende globalizzate ed il tessuto economico tradizionale, fatto di piccole e medie imprese, che dalla chiusura pressoché totale imposta col dichiarato fine di contrastare la diffusione della pandemia, ha subito un colpo esiziale: a prescindere da ogni considerazione di carattere negazionista, complottista e dietrologico, la pandemia ha cambiato in modo definitivo la struttura stessa della nostra economia, imponendo una potentissima accelerazione ai processi di globalizzazione, concentrazione della ricchezza e monopolizzazione che erano già in atto.
Dovevano ancora chiudersi i due anni dallo scoppio del covid-19 che già la guerra in Ucraina era in corso di preparazione. Non è questo il contesto per entrare nel merito delle cause, degli sviluppi e delle possibili conseguenze di questo conflitto. Tanto le cause quanto le implicazioni del conflitto armato in corso in Ucraina sono complesse e, per comprenderne i lineamenti, è innanzitutto fondamentale prendere conoscenza della storia di questo paese, in particolar modo quella che ha fatto seguito alla caduta del blocco sovietico. Ancor più determinante della situazione attuale, è quanto è avvenuto in Ucraina dopo il colpo di stato voluto e diretto dagli americani nel 2014, con l’instaurazione di un regime filoccidentale che, dichiarando la volontà di aderire alla NATO, non poteva non scatenare la reazione russa. Dalla caduta dell’Unione Sovietica, lo spostamento verso est degli apparati bellici controllati dalla NATO è stato incessante. Da anni, nella parte occidentale dell’Ucraina, sono in corso esercitazioni di forze americane, che formano e addestrano soldati ucraini.
A complicare ulteriormente il quadro è la presenza, entro i confini nazionali, della regione russofona del Donbass che ha visto rispondere alle sue richieste di maggior autonomia con azioni di repressione e terrorismo, quando non di guerra aperta, da parte del governo di Kiev, con l’uso di gruppi armati di ispirazione dichiaratamente nazista, oggi, con la guerra, inquadrati nelle fila del così detto esercito ucraino.
Si tratta di una guerra voluta e provocata dagli Stati Uniti, combattuta per procura dagli ucraini attraverso il governo fantoccio di Zelensky, e che vede come maggiori perdenti i paesi europei, esposti ai gravissimi danni economici derivanti dalle sanzioni imposte alla Russia per volontà del governo americano. L’ennesimo, indecente capitolo della storia dello “stato canaglia” per eccellenza!
La decisione degli USA di imporre a tutti i suoi partner nella NATO l’aumento delle spese militari al 2% del PIL, decisione accettata ancora una volta in modo totalmente passivo dai paesi europei, oltre alle preoccupanti implicazioni sul piano di possibili conflitti armati ed escalation distruttive che porta con sé, garantisce ad un altro settore economico di enorme peso, anch’esso, guarda caso, particolarmente sviluppato negli Stati Uniti, come quello della produzione di armamenti, un futuro florido e assicurato. La crisi energetica legata allo scontro con la Russia è stata poi un ottimo pretesto per rilanciare le fonti altamente inquinanti e pericolose che avremmo dovuto invece dismettere: petrolio, carbone, nucleare. Le lancette della storia stanno marciando pericolosamente all’indietro.
ECONOMIA DI EMERGENZA
Tutti i processi di trasformazione (potremmo dire, involuzione) economica che ho richiamato non avrebbero potuto darsi se non dietro la spinta di supposte “emergenze”, la prima, la pandemia, di carattere più sofisticato e inconsueto della seconda, la guerra. Ma un dato è certo, la storia dell’Occidente (e della grossa fetta di mondo che si trascina dietro), che avrebbe dovuto imboccare senza indugio la strada della transizione ecologica, ha preso invece, prima, quella del conflitto interno alla società prodotto dall’obbligo vaccinale e dalle conseguenti politiche discriminatorie e, poi, quella della guerra vera e propria.
Se, nel caso del coronavirus, la ristrutturazione economica è avvenuta per reazione ai provvedimenti assunti dai governi su scala planetaria e con esiti enormemente vantaggiosi per i colossi farmaceutici, della logistica e dell’informatica, nel caso del conflitto in Ucraina, abbiamo assistito alla formale introduzione di una vera e propria “economia di guerra”, con l’azzeramento di ogni programma di transizione ecologica, la licenza di utilizzare qualsiasi fonte energetica, comprese le più inquinanti e, ciliegina sulla torta, la dichiarata volontà di assicurare rilevanti agevolazioni fiscali a favore dei produttori di armi. New economy e old economy, entrambe basate su aziende di scala multinazionale per lo più statunitensi, hanno giovato dello stato di emergenza che condiziona il mondo dai primi mesi del 2020.
In realtà, il sistematico ricorso a continue e sempre nuove emergenze non è cosa nuova nel sistema del tardo capitalismo. Il crollo delle Twin Towers a New York nel 2001 ha aperto la strada alla ultradecennale “lotta al terrorismo islamista”, che ha significato guerra e distruzione in molti luoghi del mondo, promulgazione di leggi speciali in USA e in altri paesi, con pesantissime limitazioni alle libertà individuali, alla riservatezza e con l’istituzione del carcere militare di Guantanamo. Dopo all’Afganistan è toccato all’Iraq, poi alla Libia, allo Yemen, alla Siria, in un girone infernale senza fine.
La crisi finanziaria globale del 2007 – 2008, diretta conseguenza della folle deregulation in campo economico-finanziario attuata da Regan negli USA e dalla Thatcher in U.K. e portata avanti dai loro successori dell’altro fronte partitico, Clinton e Blair, ha poi visto far pagare ai popoli dei paesi più fragili l’intero suo costo. La macelleria sociale pervicacemente attuata in Grecia a seguito della crisi sul debito del 2012 – 2015 ha dimostrato l’assoluta determinazione e mancanza di scrupoli dell’establishment globale nel far pagare ai più deboli il prezzo più alto.
L’uso strumentale di supposte emergenze e il conseguente regime di “stato d’eccezione” sul piano giuridico, non sono affatto una novità per il mondo occidentale, come assai ben attestato dal lavoro di filosofi come Carl Schmitt, prima, e Giorgio Agamben nel presente. Quest’ultimo non ha mancato di denunciare con grande determinazione, il ricorso a questo particolare dispositivo, insieme autoritario e opportunistico, in relazione all’obbligo vaccinale e al così detto “green pass” introdotti dal governo italiano nel corso della pandemia da covid.
IL CADAVERE AMBULANTE DEL CAPITALISMO SI NUTRE DI EMERGENZE
Se oggi il capitalismo postindustriale, in un tempo contrassegnato dalla potente crescita tecnologica legata alla Rivoluzione informatica, può sopravvivere è solo attraverso strumenti di chiusura, di creazione artificiale di scarsità, di messa a profitto di attività cognitive apparentemente libere ma svolte in contesti, come le piattaforme proprietarie, strutturati a tale scopo. Il General Intellect è fatto oggetto di artificiosa estrazione di valore di scambio da parte del capitale finanziarizzato attraverso una serie di strumenti giuridici (proprietà privata dei mezzi di produzione, copyright, brevetti e segreto industriale, diritti d’autore-editore, licenze e marchi registrati) e di espedienti economici (creazione di monopoli, oligopoli e cartelli), che consentono al capitalismo di reggersi ancora in piedi, seppur in forma del tutto parassitaria.
Ad integrazione di questi collaudati dispositivi di creazione artificiale della scarsità, non solo di beni materiali ma anche e ancor più di conoscenza, sapere, arte, cultura in genere, il ricorso alla reiterata dichiarazione di sempre nuove emergenze, intervenendo in modo determinante sulle dinamiche economiche, fa sì che l’incessante processo di estrazione della ricchezza dalla produzione sociale e di sua concentrazione nelle mani di pochi plutocrati intangibili, possa procedere indisturbata.
IL BARATRO SI AVVICINA
Questo processo, in atto ormai da quarant’anni, di costante concentrazione parassitaria della ricchezza, protetto e garantito da un ceto politico asservito e privo di ogni dignità, celato da un sistema mediatico blindato, ha portato non solo il mondo occidentale ma il pianeta intero sull’orlo del baratro. Esso si basa su sempre più complesse macchine estrattive che prendono il nome di algoritmi. I tradizionali sistemi decisionali di natura politica, tanto pseudodemocratici che autoritari, sono progressivamente soppiantati da meccanismi automatici di controllo che, per il loro carattere impersonale, non possono essere fatti oggetto di denuncia né di attacco politico. A differenza del passato, non è chiaro chi eserciti il comando, chi sia responsabile del processo degenerativo che ci sta portando, a ritmi sempre più accelerati, alla catastrofe, anche se è molto evidente chi da ciò tragga vantaggio.
ESISTE UNA VIA D’USCITA?
Questa domanda cruciale, per opposte ragioni, non è oggetto di dibattito né nel contesto istituzionale né in quello alternativo. I movimenti giovanili ecologisti che hanno riempito le piazze nel 2019 sono stati annichiliti prima dalla pandemia, ora dalla guerra. L’uso delle emergenze non ha finalità esclusivamente economiche ma anche, e forse ancor prima, politiche. Ma, al di là di questa sempre rinnovata contingenza sfavorevole, il ristretto campo politico dotato di consapevolezza della situazione è in grado di individuare una possibile via d’uscita dall’asfissiante cul-de-sac in cui ci troviamo imprigionati?
Ad oggi non se ne vedono segni tangibili rilevanti. Tornando, solo per esempio, ai giovani di Fridays For Future, il movimento di massa più avanzato e significativo degli ultimi anni, non si è vista la capacità di organizzarsi in una forma politica democratica, in grado di autorappresentare, dal basso e senza leader, le rivendicazioni del movimento e di dargli forme decisionali orizzontali e trasparenti. L’esigenza di ricomporre, attraverso forme organizzative all’altezza dei tempi e delle loro sfide, il vasto ed eterogeneo quadro di lotte che, nonostante il ricorso a sempre nuove “emergenze”, investe l’Occidente, si fa di giorno in giorno più pressante. Dobbiamo assolutamente trovare il bandolo dell’intricata matassa del processo politico alternativo, quello che deve condurci sulla strada della costruzione delle Istituzioni del Comune. Per questo serve una Politica nuova. Per un approfondimento su questo fondamentale e urgente argomento, rinvio al mio articolo Per una Politica rizomatica. Verso un nuovo paradigma politico.