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Franco Citti, un ragazzo di vita di Torpignattara

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C’è un libro, ormai quasi introvabile, che descrive meglio di tanti altri le atmosfere e i personaggi di una Roma popolare che oggi non esiste più. Si chiama “Vita di un ragazzo di vita“, è del 1992, e l’autore è l’indimenticabile Franco Citti, meglio conosciuto come “Accattone”. Pensieri, ricordi d’infanzia e di gioventù, ma anche di una vita adulta alquanto movimentata, di un ragazzo nato e cresciuto a Torpignattara nel 1935, diventato famoso grazie al casuale incontro con un intellettuale (poeta, narratore, cineasta, saggista) di cui si è appena celebrato il Centenario della nascita. Un ragazzo di vita, Franco Citti, che ha conosciuto la fame, le botte, il riformatorio minorile, il duro lavoro di imbianchino nei cantieri, ma che, ad un certo momento della sua esistenza, grazie a quel fortunato incontro, è diventato un attore famoso (fin dal suo primo film, il celebre Accattone), ha guadagnato molti soldi (e altrettanti ne ha sperperati), ha conosciuto molte donne che lo hanno amato e anche abbandonato, per poi finire la sua vita, in condizioni di acute ristrettezze economiche, a Fiumicino nel 2016.

Un ragazzo che, nonostante il successo, non ha mai dimenticato le sue origini umilissime e il suo quartiere: Torpignattara, che non ha mai smesso di amare. E chi ha avuto la fortuna di leggere questo libro lo può testimoniare: sono molti i passi nei quali Torpignattara viene ricordata. Ecco il primo: “Torpignattara era allora quello che era, con le scuole occupate prima dai tedeschi e poi dagli americani… e poi c’erano altre “scuole” che si chiamavano via della Marranella – dove abitava con la famiglia- la chiesa di San Marcellino, le mura dell’acquedotto verso la Tuscolana”.

Ecco l’incontro con Pasolini: “La prima volta che l’ho visto, stava fermo con la bicicletta davanti al bar, al semaforo grosso di via Torpignattara. Parlava tutto serio con mio fratello Sergio. A me, sinceramente, di conoscerlo, non mi fregava proprio niente. Scendevo tutto sporco dal tranvetto azzurro della Casilina dopo una giornata sul cantiere. E mi rodeva un po’ il culo perché avevo viaggiato di fuori, attaccato al predellino. In quegli anni gli operai, in tuta, sporchi di calce o di vernice, in mezzo alla gente non ce li facevano stare: l’unica consolazione rimaneva quella che, per lo meno, non pagavi il biglietto”. Nel brano non si dice l’anno, ma sappiamo che si tratta del 1952, perché disponiamo, sullo stesso episodio, della testimonianza di Pasolini, in una pagina del suo diario del 3 maggio 1962: “Un giorno Sergio, mentre camminavano, lì, al semaforo della Casilina, mi presentò suo fratello Franco che era un ragazzetto di diciassette anni. Ancora cucciolo, timidissimo, con gli occhi d’angoscia della timidezza e della cattiveria che deriva dalla timidezza, sempre pronto a dibattersi, difendersi, aggredire, per proteggere la sua intima indecisione: il senso quasi di non esistere che egli cova dentro di sé”.

Ma riprendiamo, ora, con un brano dalle memorie di Franco: “Ostia per me è il sogno interrotto da uno spavento, una separazione da non so cosa, che mi è rimasta dentro tutta la vita. … Solo l’idea di andare al mare mi pareva un grosso gioco, un salto enorme nelle pieghe della fantasia, un qualcosa che mi avrebbe fatto sembrare diverso agli occhi degli altri pischelletti di Torpignattara, della Borgata Gordiani e di Pietralata, abituati come me a sguazzare nella merda degli acquitrini, nel fango”. Ed ecco come il pischello di Torpignattara racconta la sua prima volta con una donna: “Chi era Anna? … Una mignotta del Mandrione. … Ero entrato nella sua casupola- chi non ha conosciuto il Mandrione non sa di cosa si tratti – una stanza in muratura con una tenda sull’ingresso (la via, a quell’epoca era tutta così, una porta dietro l’altra, a destra e a sinistra, dopo aver imboccato l’arco della Tuscolana), una luce dentro, quattro mobili ammucchiati e tenuti in piedi non si sa come, e un letto sempre sbracato con sopra delle coperte di colore assurdo, come quelle dei militari. … Per me era proprio bella. E capi’ subito che ero uno scemo che non conosceva proprio le donne. Le saltai addosso come una bestia”. Ed ecco, infine, come il ragazzo di Torpignattara descrive il suo primo giorno da “attore”, protagonista di Accattone; l’inizio della prima scena girata davanti al “baretto” di via Fanfulla da Lodi, al Pigneto: “Al primo ciak io mi cacavo sotto. Ma come al solito non volevo darlo a vedere e assumevo strani atteggiamenti per non farlo capire. Il grugno da coatto sbandierato al vento, le gambe che mi tremavano come quelle di un capretto. Pier Paolo andava avanti e indietro con la macchina da presa in mano. Mi girava intorno come una vespa saltellante e a me pareva una specie di Gesù Cristo”.

Un libro, questo delle memorie di Franco Citti, che si legge tutto d’un fiato, scritto in uno stile vivace anche grazie all’uso ricorrente di termini propri della Roma “borgatara” anni cinquanta. Lo sfondo è quello di un quartiere e di una città ormai scomparsi, al centro l’omaggio discreto e spoglio di retorica ad un uomo che Citti non ha mai smesso di considerare un amico e un benefattore: Pier Paolo Pasolini.